Non tutti i cavalieri disponevano però di insegne di famiglia: il novello cavaliere senza stemma avìto aveva lo scudo di un solo colore, il cosiddetto “scudo o tavola di aspettazione”, e attendeva di caricarlo con gli elementi che si ritenevano via via più pertinenti ed opportuni (armi assuntive o di assunzione). Alcuni “cadetti” delle grandi famiglie portavano lo scudo con le insegne familiari coperto da un velo: potevano scoprirlo solo dopo un’azione valorosa. Secondo alcuni araldisti -- ma è soltanto una leggenda -- alcune famiglie, cadute in rovina e incapaci pertanto di mantenere i propri privilegi, usavano ridipingere le figure sui propri scudi di una tinta appena più scura o più chiara di quella del fondo (trasparenza) piuttosto che abbandonarle del tutto. Il cavaliere vittorioso in battaglia aveva il diritto di fregiarsi delle insegne catturate al nemico vinto, ponendole sul proprio scudo. Era sufficiente un’azione vittoriosa per aver titolo a prendere i segni della vittoria. Già nel 1275 Raimondo Lullo, nel “Libro dell’Ordine della Cavalleria”, afferma che:
il blasone che sta sullo scudo, sulla sella e sulla cotta del Cavaliere, è il segno di riconoscimento delle ardite azioni che ha condotto e dei colpi che ha menato in battaglia5
Ad esempio conquistando le mura di un castello si poteva inserire nello scudo la
figura della torre o della cinta merlata, oppure l’immagine della scala
che era servita a salire sugli spalti per espugnare la fortezza; chi poteva
vantare la propria partecipazione alle Crociate, oppure avi che vi avevano
partecipato, spesso ornava il proprio scudo con la croce o con teste di moro.
Lo stesso fecero -- in seguito -- i nobili ungheresi che, difensori della
cristianità contro gli ottomani, spesso fregiarono i propri stemmi di turchi con
la testa infilzata su spade, sbranati da leoni e così via, dando vita ad
una araldica piuttosto sanguinaria, ma pittoricamente efficace. Come le
imprese militari, anche quelle amorose costituirono presto elemento di
distinzione: i cuori spesso facevano bella mostra sullo scudo del cavaliere
innamorato, così come le rose (o altri fiori), le colombe, le fiamme, la fornace,
le frecce: tutti simboli dell’amore ardente. Spesso il colore del velo o
del fazzoletto di una damigella che, da spettatrice, partecipava ad un
torneo, ad una giostra, andava a connotare lo scudo di qualche cavaliere
ancora alla ricerca del distintivo araldico definitivo. Ben presto, però,
le figure in uso, sebbene assai numerose, non furono più sufficienti ad
esprimere il moltiplicarsi dei cavalieri. Si dovettero perciò creare nuove
forme di distinzione. La croce assunse allora le forme più svariate e le
colorazioni più disparate e nel blasone cominciarono ad entrare nuove figure
quali draghi, unicorni, sirene, grifoni, animali fantastici e mostruosi che
verranno successivamente definiti chimerici. Con il trascorrere del tempo
altre figure si aggiunsero a quelle in uso e si cominciò a fare ricorso alle
“partizioni” che raccoglievano nello scudo più elementi; dalla Spagna
venne poi l’uso di “inquartare” gli scudi, creando insegne sempre più
complesse.
Alcuni assunsero emblemi corrispondenti al nome (stemmi parlanti), altri nomi
corrispondenti all’emblema: in effetti l’uso della stemma è grossomodo
contemporaneo (e in alcuni casi precedente) a quello del cognome. Del resto,
come faremo notare a tempo debito, la dinastia inglese dei Plantageneti deriva il
suo nome dal ramo di ginestra (plant à génêtre) presente sullo stemma
del capostipite Goffredo il Bello, conte d’Angiò (1113-1151) (v. cap.3,
p.39).
Un gentiluomo perfetto doveva essere in grado di riconoscere dallo stemma il
nome di famiglia del guerriero, ravvisarne la personalità, le azioni di guerra a
cui aveva preso parte, le imprese memorabili compiute da lui o dai suoi
avi.
Lo stemma era -- pertanto -- sia “carta di identità” dell’individuo, sia
memoria storica delle imprese da lui compiute, una sorta di “biglietto da
visita”.
Possiamo quindi distinguere due periodi: una prima fase in cui si registra la
trasformazione di motivi decorativi dipinti su scudi in emblemi personali
(1100-1140) e una seconda che vede la trasformazione di questi ultimi in emblemi
ereditari soggetti a regole precise (1140-1180).
Gli stemmi di alcuni fra i maggiori feudi intorno al 1150, sono tutti geometrici e
bicolori: ricordiamo Lussemburgo (sbarrato), Vermandois (scaccato), Savoia
(croce), Borgogna (bandato), Fiandre (gheronato)...
Dal 1230 circa tutte le comunità civili, ecclesiastiche e militari nonché tutte le
altre categorie sociali (le donne, in particolare), cominciarono ad usare i simboli
araldici negli emblemi. Nelle città, lo stemma veniva utilizzato per indicare il
possessore di un immobile. Infatti non è raro trovare case, torri, palazzi
che recano agli angoli uno stemma, in modo da definire con precisione i
confini della proprietà, stretta com’era fra altri (e altrui!) edifici. Solo dalla
seconda metà del 300 gli stemmi furono raffigurati anche sulle facciate e sui
portali.
L’araldica inoltre identificava anche le province dell’impero, le città del periodo
comunale, gli ecclesiastici (dal papa al semplice sacerdote), le confraternite e gli
ordini cavallereschi, le signorie, le associazioni di lavoro come le arti e le gilde. Gli
stemmi cittadini riprendevano con una certa frequenza quelli dei rispettivi
signori (ad esempio Basilea, in Svizzera, porta ancora sullo stemma il
Pastorale del Vescovo suo antico signore), mentre quelli delle corporazioni
riprendevano spesso strumenti o animali attinenti al mestiere dei loro
rappresentati.
Regole fisse e particolari si consolidarono, ad opera degli araldi, a partire dal
XIV secolo. In questo secolo si cominciò a vestire sopra l’armatura a
maglie un abito di stoffa con le insegne familiari: da questa abitudine
deriva “coat of arms”, il termine anglosassone per “blasone”, “insegna”,
“stemma”.
Solo dal 1390, in Inghilterra, il diritto di portare un certo stemma divenne
ereditario.
Dal 1400 per essere ammessi a partecipare ad un torneo era necessario portare
uno stemma e, a causa dell’importanza sociale di questi eventi, un’insegna
diventò ben presto indice di nobiltà.
Tuttavia la maggior parte degli stemmi venivano semplicemente
assunti, senza essere concessi da una qualche autorità. Edoardo
IV6 ,
nel 1483, regolamentò l’iniziale libertà di scelta e uso delle insegne, facendo carico
di questo il College of Heralds di Londra, e nel 1488 suo fratello, Riccardo
III7
affidò a questo istituto le ricerche genealogiche e il compito di confermare titoli
onorifici nonché di approvare e registrare gli stemmi.
Il Libro di S. Albano (The Boke of S.Alban’s), 1486, è uno dei più antichi libri
riguardanti l’araldica, se non -- addirittura -- il primo di essi in Inghilterra. In
esso si legge:
Here shall shortlie be shewyd to blase all armys if ye entende diligently to your rulys = applicandosi diligentemente, sarà in breve semplice blasonare tutti gli stemmi.
Quando nel 1500 cominciarono a scomparire sia i tornei, sia gli elmi chiusi, gli usi
sportivi e militari degli stemmi divennero meno importanti, e l’araldica divenne
quasi un’arte decorativa: le insegne furono incise su portoni, ricamati su
tappezzerie, istoriati in vetrate e incisi su argento.
Molti araldi collezionavano intanto il maggior numero possibile di stemmi,
creando così le prime raccolte di insegne o “armoriali” (v. 3.3, p.47).
In Inghilterra, fra il 1580 e il 1686, gli Araldi del College of Heralds istituirono
delle “Visitazioni” in tutto il Paese, con lo scopo di raccogliere, osservare,
decifrare, registrare tutti gli stemmi che venivano portati. Sembra che il
termine inglese heraldry venisse usato per la prima volta durante queste
visitazioni, essendo prima usato il termine armorie. Da queste visitazioni ebbe
origine in Inghilterra uno straordinario impulso all’araldica, che spinse
numerosi Autori a pubblicare volumi e libri su questo argomento. Riportiamo
l’elenco di alcune di queste opere, desunto da “A glossary of terms used
in heraldry”, James Parker, 1894, con lo scopo di dimostrare quanto
asserito.
Si noti che il termine Heraldry (Araldica) non viene usato se non a partire dal
XVIII secolo tranne due eccezioni: Guillim (cit., 1611) e MacKenzie (cit., 1682)
che usa un termine simile: Herauldry.
Fino al XV secolo, l’uso di “timbrare” lo scudo, ovvero di apporre elmi,
cimieri, svolazzi, lambrecchini...(v. Parte III, p.289), era dovuto soltanto a
questioni estetiche. Poiché, però, il fatto di avere un’insegna non discendeva
dall’appartenenza ad uno stato sociale (quello dei cavalieri), o all’aver
compiuto atti di particolare valore militare, i nobili -- spesso ridotti in
povertà -- cercarono di diversificare le proprie armi utilizzando proprio le
timbrature come elemento qualificatore del proprio stato. Fu così che nella
Francia del 1535, un mandamento di Francesco I stabilì che soltanto i
nobili potevano timbrare il proprio scudo. Questa legge, sebbene più volte
confermata nel corso degli anni, fu poco seguita: in effetti fino al XVIII
secolo l’uso di una timbratura non sembra essere affatto sinonimo di
nobiltà.
L’editto del novembre 1696 di Luigi XIV di Francia, stabiliva che entro due mesi
tutti i nobili, gli ecclesiastici, le amministrazioni, corporazioni, istituzioni, gli
ordini religiosi, i borghesi ecc. dovevano registrare le proprie insegne. I
trasgressori sarebbero stati puniti con l’ammenda di 300 lire. Poiché a questa
registrazione erano tenuti anche tutti coloro che per merito personale avevano un
titolo d’onore o di distinzione, tutti coloro che possedevano (o usavano) uno
stemma andarono a farlo registrare presso uffici addetti a questo scopo. Il
risultato di questo censimento -- paragonabile per importanza alle visite degli
araldi inglesi che abbiamo visto precedentemente -- fu l’organizzazione
dell’Armorial général. Chi, in seguito, avrebbe voluto acquisire un’insegna,
avrebbe dovuto pagare un’imposta di registrazione fissato a circa 20 lire. Chi
desiderava apporre modifiche successivamente doveva pagare la stessa
somma.
Malgrado la minaccia di ammende, le registrazioni non furono affatto numerose e
quelle effettuate furono dovute, soprattutto, ai nobili e ai religiosi. Il 3 dicembre
1697 il Consiglio di Francia obbligò tutti gli “abili a portare un’insegna” (ma chi
voleva indicare questa fumosa dizione?), a registrarla entro 8 giorni, altrimenti
sarebbe stata loro concessa d’ufficio (in base al mestiere, al nome, alla
categoria sociale), dietro il pagamento della stessa tassa. Fu così che anche
chi non avrebbe mai pensato di portare uno stemma, fu costretto ad
adottarne uno. In questa occasione videro la luce delle armi parlanti
particolarmente divertenti, che persino gli involontari proprietari si vergognavano
ad usare: ad esempio un farmacista bretone si vide assegnare uno scudo
così: d’azzurro, alla siringa d’argento accompagnata da tre pitali dello
stesso.